Fausto Cantarelli: è il tempo della Cultura Alimentare

Prof. Fausto Cantarelli


La popolazione più evoluta del pianeta Terra riconosce all’Italia, più che ad altri Paesi, il possesso di un patrimonio di prodotti tipici ricco, vario e di qualità e una dovizia di preparazioni di alta cucina che, insieme, assicurano delle straordinarie opportunità al territorio interno e ad attività esterne (turismo internazionale ed esportazione), come si coglie dalle prime avvisaglie che hanno cominciato a comparire da un paio di anni.
I successi sarebbero stati anche maggiori se queste notevoli risorse fossero state accompagnate da supporti culturali in grado di spiegare e valorizzare la particolare “ideologia italiana dell’alimentazione”, comprendendo anche la produzione e il consumo degli alimenti biologici per i quali il Paese si ritrova al primo posto in Europa.

Per raggiungere lo scopo e valorizzare tempestivamente e pienamente le potenzialità italiane, che oltretutto sono indice di alta civiltà, occorrerebbero maggiori e migliori approfondimenti della loro storia e della loro cultura alimentare che, per essere millenarie e di grande respiro, sono le sole in grado di spiegare in chiave antropologica il significato e la diffusione sul territorio di tante storiche espressioni dell’ingegno e della tradizione nazionali, il cui valore è fuori dal comune per abbondanza, qualità e varietà. In tale contesto, è inutile e deviante insistere nella reiterata pubblicazione degli inventari di ricette che ormai compaiono in ogni dove con grande frequenza, senza aggiungere molto alle portate storiche che già conosciamo e che, oltre tutto, al di fuori della terra d’origine e senza operatori qualificati, non riescono a mantenere gran parte delle loro promesse.

Non si può più ignorare, dopo tanti inventari sull’argomento, che le origini dei comportamenti alimentari nazionali affondano nella preistoria, quando, dopo la nascita dell’agricoltura in Medio-Oriente (Mezzaluna fertile), dieci mila anni fa, la popolazione asiatica, che fino ad allora era stata nomade, ha cominciato a interessarsi al proprio territorio e alla ricerca di una propria emancipazione esistenziale e di una propria crescita culturale ed economica, affrontando per la prima volta lo sviluppo che, a sua volta, ha richiesto maggiori superfici produttive per soddisfare il crescente fabbisogno alimentare di una popolazione in continuo aumento.

È a seguito di questa ricerca che alcuni pionieri-avventurieri medio-orientali, una volta arrivati sui litorali del Mediterraneo, hanno proseguito per mare e, avvalendosi delle correnti, hanno attraversato il canale di Sicilia e il mar Ionio, introducendo in Europa, otto mila anni fa, nelle terre a sud-est del Mediterraneo nuove specie vegetali e animali da utilizzare come materie prime alimentari, allora sconosciute in Europa e oggi dominanti; si tratta dei cereali e dei legumi tra i vegetali e degli ovini, dei caprini, dei bovini e dei cani tra gli animali, a cui si deve aggiungere il suino che è autoctono anche nel Vecchio Continente.

Così, mentre, in questi territori, oggi riconoscibili nelle regioni di Sicilia, Calabria, Campania, Lucania e Puglia, l’uomo ha potuto dare inizio alla nuova attività agricola e all’allevamento del bestiame con due mila anni di ritardo rispetto al Medio-Oriente, il resto della Penisola e l’Europa centrosettentrionale hanno dovuto attenderne altri tre mila prima di essere raggiunti da una miriade di piccole tribù medio-orientali con gli animali al seguito che, avendo scelto la via di terra, hanno attraversato i Balcani e percorso il corridoio danubiano fino al mare del nord, da dove le stesse tribù sono ridiscese per distribuirsi nell’intero continente fino ad arrivare al Lazio.

Da questi due trasferimenti delle nuove materie prime alimentari, così diversi per le vie percorse, per i tempi e per i consumi conseguenti, ha avuto origine la doppia faccia dell’alimentazione italiana, tutt’ora presente: la prima, definita nell’ultimo dopoguerra “Dieta mediterranea” dal biologo americano Ancel Keys, che è il primo ad averla studiata, è sintetizzabile nel consumo prevalente di prodotti vegetali con l’olio vergine d’oliva come condimento e il vino come bevanda, mentre la seconda, da noi definita “Dieta continentale”, diffusa nella parte centrosettentrionale del territorio nazionale e nell’Europa celtica, contempla il consumo prevalente di prodotti di origine animale secondo il costume dei nomadi che, essendo in continuo movimento, non sono in grado di coltivare la terra, ma ricorrono alle mandrie al seguito per il proprio sostentamento, utilizzando anche lo strutto e il burro come condimenti e la birra come bevanda.

Ancora oggi permane in Italia e in Europa gran parte delle differenze alimentari di quel lontano passato con la prima dieta, che è rimasta invariata per tutto il tempo, mentre la seconda ha subito qualche rimaneggiamento tra cui di recente l’introduzione dell’ortofrutta accanto a carni e formaggi, rimasti però prevalenti, e la sostituzione dello strutto e parzialmente del burro con l’olio vergine di oliva e della birra con il vino.

Le ragioni di questa evoluzione, che rientrano a pieno titolo nella cultura alimentare italiana ed europea, di cui costituiscono uno dei punti di maggiore specificità, oggi sono del tutto trascurate, per non dire ignorate, mentre continua imperturbabile il vezzo, iniziato nel Medioevo con l’avvento dell’arte tipografica a caratteri mobili, di pubblicare le ricette di ogni possibile portata, la cui importanza è del tutto relativa, perché non riescono a illustrare né le origini, né l’evoluzione, né le scelte antropologiche in parallelo delle due civiltà alimentari citate, né spiegare la continuità nel tempo, salve le citate variazioni.

I termini di tutta la questione si celano — lo ripetiamo — nella storia dell’uomo che fin dalle origini si è distinta da quella degli animali, introducendo, accanto alla crescita biologica, che è stata frutto di continui adattamenti all’ambiente, la cultura, elemento originale che ha costituito un’anomalia nel mondo degli organismi viventi, sollevando l’uomo dal rigido determinismo genetico e ambientale, rendendolo presente con le proprie scelte e, quindi, permettendogli di avere un proprio peso sugli effetti indotti.

Per l’antropologo F. Facchini “le differenze tra uomo e animali di maggiore rilievo sul piano fenomenologico sono rappresentate dal comportamento culturale mentre, sul piano anatomico-funzionale, le caratteristiche di maggior rilievo sono la fonazione, il linguaggio e la complessità cerebrale e psichica”.

Nei tempi successivi, l’Italia ha perfezionato ampiamente le due risposte alimentari, raggiungendo i massimi traguardi mondiali nelle terre mediterranee nel V secolo a.C. e, nelle terre continentali, duemila anni più tardi, nel Rinascimento, prima di entrare per la durata di due secoli nel tempo dell’agribusiness che si è imposto fino alla fine del secondo millennio, facendo leva sull’aumento della popolazione mondiale, passata in due secoli da poco più di un miliardo di unità agli attuali sei miliardi e mezzo; questo passaggio ha permesso agli USA e al dollaro di ottenere, nell’ultimo mezzo secolo, dopo avere fatto incetta dei migliori cervelli, la leadershipeconomica nel mondo, mentre l’Italia riusciva finalmente a uscire dalle sacche del sottosviluppo per raggiungere, con il “miracolo economico”, i Paesi più avanzati nel G7.

Alla partenza del terzo millennio, il sistema agroalimentare è entrato in fibrillazione in Italia e nel mondo, e con maggiore intensità nei paesi ad economia avanzata, dove maggiore è stata la caduta della crescita demografica, dove più acuta si è fatta la concorrenza alimentare, dove è stata più avvertita la domanda di conoscere le fonti alimentari dell’uomo e dove l’uomo sta tentando di recuperare l’antica qualità della vita e la migliore qualità alimentare, appannaggio dell’Italia più che di altri paesi.

Lo stesso Prodotto Interno Lordo (PIL), nato nello stesso ultimo mezzo secolo per rispondere al nuovo pragmatismo economico, oggi conta un numero sempre maggiore di critici, a cominciare quarant’anni fa da Robert Kennedy per finire all’attualità con l’economista calabrese Pierangelo Dacrema, che ultimamente ha pubblicato “La dittatura del PIL. Schiavi di un numero che frena lo sviluppo”, al francese Serge Latouche (“Come sopravvivere allo sviluppo”) e a tanti altri.

Costoro hanno decretato la fine di un comodo alibi che esclude l’analisi spinosa della distribuzione della ricchezza prodotta, senza indicare alternative.

Oggi, invece, riemerge nei paesi ad economia avanzata la volontà di rivalutare la cultura in ogni campo, compreso quello alimentare, senza escludere né il profitto né il volontariato, ma togliendo di mezzo un altro alibi, quello delle ricette, che è tanto comodo da non cedere, nonostante il nuovo pragmatismo della gente, comprendendovi anche lo stato di salute, la longevità, il gusto per la vita, l’amore per l’arte, la letteratura, la buona creanza e l’alta cucina, come era sempre avvenuto in passato, prima che i due secoli dell’agribusiness facessero deragliare il treno culturale.

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